16-02-2021
BRUCE ALONZO GOFF
Bruce Goff,
Anthony V. Thompson, Michael Stano, Rachel Cole,
Aurora, Illinois, Norman, Oklahoma,

Le conseguenze che erano state provocate dall’agiatezza economica raggiunta negli Stati Uniti d’America nell'ultimo decennio del diciannovesimo secolo non vedranno la condivisione di Goff, che reputava indispensabile per una vera architettura la consapevolezza delle proprie radici. Nutriva idee molto chiare riguardo al ruolo che un architetto doveva esercitare, libero da qualsivoglia pressione o condizionamento, e quanto si stava verificando era certamente lontano dalle sue aspirazioni. La diffusa tendenza a voler esibire il nuovo status sociale, conferito dalle ricchezze accumulate, aveva ampiamente coinvolto anche gli architetti dell’epoca, che non avevano esitato ad accondiscendere al desiderio di ostentazione e prestigio dei loro clienti. Avevano cominciato a susseguirsi palazzi che rievocavano con le loro facciate le mode e gli stili più disparati delle fasi più splendide della storia dell’architettura d’oltreoceano. Una vera e propria follia, aggravata dall’uso di materiali fatti arrivare dalle località più lontane ed impensate. Un eclettismo unicamente dettato da denaro, che non poteva essere paragonato a quel gioco spontaneo, ma anche tanto intelligente e colto di Goff. Gli architetti hanno nella maggior parte purtroppo scelto l’asservimento all’interesse economico anziché privilegiare, come avrebbero dovuto, riferimenti di luogo, tempo, cultura locale e tradizione. In questo ‘deserto culturale’, che si rifletteva in una forma di vuota standardizzazione, ci furono naturalmente eccezioni, che si opponevano alla moda di un'‘Architettura della facciata’, avanzando proposte funzionali e formali più innovative, come quelle di Richardson, Sullivan e degli aderenti alla ‘Scuola di Chicago’. Tentativi che si sforzavano di promuovere un'architettura autoctona.

Bruce Goff e Frank Lloyd Wright. Foto cortesia di Goff Archive, Ryerson & Burnham Archives, The Art Institute of Chicago; digital file@The Art Institute of Chicago.
Il padre di Bruce era il più giovane di sette figli e, una volta sposatosi, iniziò a viaggiare da Alton, in Kansas a Denver, in Colorado, nella speranza di poter garantire un futuro migliore alla moglie e ai due figli, con il suo mestiere di riparatore di orologi. Purtroppo il lavoro era così insufficiente da vedersi costretto a chiudere il negozio e, disposto ad accettare ogni possibile impiego, decise di trasferirsi a Tulsa, una delle maggiori e più prospere città dell’Oklahoma. Sarà tra altre tre località dello stato che si svolgeranno i primi anni del piccolo Bruce. Crescerà in periferia, giocando nei terreni agricoli della campagna e vivrà in minuscole case, ce ne sarà una in particolare che consisterà in una stanza di 12 x 24 piedi, dove ricorda che il cibo era così scarso che spesso andava a letto affamato. Ci fu un’estate elettrizzante che trascorse con la sorella nella piccola residenza di campagna, in Kansas, della sua bisnonna, una pittrice autodidatta, a cui era molto affezionato. Incantato dalla sua collezione di cristalli, conchiglie ed altre cose strane che raccoglieva durante le passeggiate, dai suoi paesaggi, così come dai piccoli dipinti di uccelli, fiori e frutti del bisnonno, diverrà un fanatico della natura. Con effetti personali praticamente inesistenti, essendo tutto ridotto all'essenziale, crebbe in lui un profondo rispetto per la conservazione di oggetti semplici ed ordinari. Racimolava in giardino tutto quello che trovava: pietre, ossa, bastoni, foglie, definendoli 'lego naturali’, che riadattava come pezzi d’incastro in giochi o creazioni straordinarie. Pur avendo vissuto per maggior parte nell’America centrale, la cultura di massa e l'arte del tempo non ebbero su di lui nessuna influenza, venendo al contrario considerate troppo banali, piene di cliché e stereotipi. Ci fu invece un viaggio con la sua famiglia attraverso le vaste pianure del West America che lo portò ad un breve incontro con i Nativi Indiani Americani, i Cherokee, e lasciò in lui, ancora adolescente, un segno indelebile. Ciò che lo sorprese profondamente era come quella popolazione si relazionava alle dure difficoltà e ai disagi di un’esistenza, che aveva condiviso, riuscendo a sopportarla e a farla apparire meno amara. Pareva che avessero trovato un antidoto, non per esorcizzare la limitatezza delle loro risorse ma addirittura per celebrare questa povertà tra colori ed eleganza, realizzando a mano con dedizione e passione quegli artistici oggetti ed indumenti che li aveva visti indossare, adornati con collane di perline, copricapi piumati, coperte lavorate a maglia e mocassini in pelle. Era un modo per sublimare il sapersi accontentare di poco o niente, una vera e propria lezione di vita che diverrà per lui fonte di ispirazione sia nella condotta quotidiana che nella realizzazione dei suoi lavori.
Dopo varie peregrinazioni, il ritorno nel 1915 a Tulsa sarà definitivo. La nuova ricchezza acquisita dal petrolio sarà fonte di un parallelo desiderio di sviluppo culturale e di attività. Si respirava un’atmosfera che inneggiava al ‘nulla impossibile’, che diverrà il credo di Bruce per tutta la vita. Sarà qui che frequenterà la VI elementare, prima di interrompere la scuola per lo studio di Rush, Endacott and Rush. Aiutato da un’insegnante, scopre una predisposizione per la pittura: estremamente dotato produrrà una quantità di pregevolissimi disegni e dipinti su qualsiasi superficie disponibile che riuscisse a trovare, carta da parati avanzata, involucri, giornali, non potendo permettersi di acquistare un album da disegno. Dipingere, fare mosaici e opere di arti applicate rimarrà, assieme alle lunghe passeggiate, uno dei suoi passatempi preferiti, come la musica. Sarà in particolare la musica classica ad esercitare un grande coinvolgimento, con una forte attrazione per le composizioni di Debussy, che seguirà appassionatamente non solo per le sue sinfonie ma come vero e proprio maestro di vita. Una delle massime, che adotterà e lo guiderà nell’atteggiamento da tenersi nei rapporti interpersonali e nel lavoro, raccomandava: "Non prestare orecchio al consiglio di nessuno, ma ascolta il vento che racconta di sfuggita la storia del mondo". I suoi ‘edifici disobbedienti’ non usavano un vocabolario diciamo ortodosso e non si adeguavano ad un linguaggio codificato ma sovversivi per la loro epoca non erano capiti e non si intravvedeva la possibilità di giudicarli senza l’estremismo della non obiettività, considerandoli o eccessivamente avveniristici o eccessivamente banali.
Un altro episodio, unitamente alla raccomandazione del grande compositore, impronterà il suo comportamento quasi impassibile di fronte alle critiche più offensive. In passato la sorella, che aveva un carattere completamente diverso da lui e non amava passare lunghi pomeriggi tranquilli in casa, lo provocava spesso per non assecondare il suo desiderio di trascorrere più tempo all’aperto con gli altri bambini. Bruce ricorda che, un giorno in cui avvenne l’ennesimo sgarbo, un bicchiere d’acqua volutamente rovesciato su un acquerello appena terminato, atto che lo avrebbe normalmente fatto reagire, andando su tutte le furie, aveva deciso di fingere il nulla. Questa apparente indifferenza aveva inspiegabilmente scoraggiato e posto fine alla serie di atti odiosi e ne fu talmente soddisfatto da decidere che avrebbe adottato questa tattica sempre con chiunque in futuro lo avesse attaccato. Ed in effetti saprà mantenere questo contegno molto tollerante, apparentemente incurante degli apprezzamenti di chi non capirà e non apprezzerà le sue creazioni. Sono tanti gli aneddoti che si raccontano a proposito della sua imperturbabile serenità anche quando le offese erano pungenti, come nel caso di Mies van der Rohe, che gli aveva fatto notare che non c'era bisogno di inventare un nuovo stile ogni lunedì mattina. E se fosse stato presente quando Charles Jencks lo definì il 'Michelangelo del kitsch’ avrebbe sicuramente risposto che i suoi edifici premiavano, suscitando interesse.
Nel mondo artistico è, direi, abbastanza normale che chi riscuote successo assuma atteggiamenti autorevoli ed anche un po’ arroganti, giocando a circondarsi con un’aura che faccia apparire il più speciali possibile. Goff al contrario non ha mai cercato di inscenare comportamenti studiati e l’unica nota che forse poteva addirsi all’eccentricità del suo stile architettonico era il suo abbigliamento, con una predilezione per i colori accesi in accostamenti contrastanti, che risultavano particolarmente sgargianti per un’atmosfera conservatrice come quella di Oklahoma. Riuscì contando sulle sue uniche forze, da autodidatta, senza mai conseguire una laurea, ad ottenere importanti riconoscimenti, la carica di insegnante e successivamente il titolo di Presidente del dipartimento di Architettura dell'Università dell’Oklahoma. E l’apporto che negli otto anni di mandato ha regalato al mondo accademico che lo aveva coinvolto è sicuramente capito oggi più di ieri. Riuscì arruolando nuovi docenti a trasformare in modo rivoluzionario la formazione ad un’architettura, non improntata su quei dogmi che era solita predicare, lasciando i ragazzi liberi da qualsiasi indicazione programmatica e da consueti punti di riferimento. Lo attesta una mostra che gli è stata da poco dedicata, che, con il titolo ‘Renegades: Bruce Goff and the American School of Architecture’, sembra volere scusarsi per chi non gli ha riconosciuto i meriti che gli erano riservati. Goff, pur sapendo perfettamente che molti colleghi non apprezzavano il suo lavoro, aveva la consapevolezza della propria singolarità e che l’innovazione non veniva sempre accolta come avrebbe dovuto. Questo lo portava a mantenere con tutti i suoi modi cortesi e gioviali, a non provare rancore neppure verso i più accaniti denigratori.
In qualità di architetto, cercò sempre di costruire case che riflettessero l'identità e la personalità dei loro abitanti, che non assomigliassero tra loro, adatte ad uno stile di vita ed espressione individuale, un’esigenza dettata da un carattere eclettico. Corpi dinamici geometrici e forme radicali, concepiti con oggetti trovati localmente a volte riciclati o riutilizzati, scarti industriali, elementi naturali - piume d'oca, carbone, portaceneri di vetro, biglie - assemblati insieme in modo bizzarro ed assolutamente inaspettato esprimevano la sua fantastica ingegnosità. Anticipatore di un'era a venire, autentico precursore di una progettazione circolare, utilizzò una grande quantità di reperti di scarto, parti di produzioni seriali smantellate, non rigettando mai nulla che lo aiutasse a concepire una seconda vita, facendone uso come componente integrante di ogni sua elaborazione: un gesto caratteristico il suo che lo portava a combinare fattore decorativo e strutturale come un insieme indissolubile. Con coraggio e convinzione ha perseguito il sogno di promuovere un’architettura locale e vernacolare legata a quel suo credo egualitario, che la voleva accessibile, ma allo stesso tempo distinguibile, conferendole un'interpretazione moderna, unica, per così dire sartoriale. Il suo ottimismo sperimentale sconfina con una visione quasi utopica di esistenza in sincretismo con la natura. La sua produzione andava al di là delle aspettative di un tipo di vita legata ad un certo status quo, e si preoccupava di fare intravvedere un modo totalmente diverso in cui vivere. Dotato di una vena inesauribile, non finisce di stupire con proposte che alla stravaganza univano un’enfasi speciale sulla decorazione come dettaglio e sul virtuosismo della lavorazione, nell’aspirazione che in ogni casa le persone avessero spazio per essere se stesse. ‘Luoghi comuni del cuore’ lontani dalla temporanea superficialità di mode e simbolismi convenzionali.
Ford House, 1949, Aurora, Illinois. Progetto di Bruce Goff. Foto cortesia di Rachel Cole.
L’opportunità di avere conosciuto ed applicato lui stesso tecnologie all’avanguardia durante il servizio militare lo aiutò ad incorporare tali qualità ingegneristiche nel suo lavoro. Quando nel 1949 gli venne commissionata la Ford House, ad Aurora, Illinois, applicherà un’insolita configurazione radiale delle costolature Quonset in colore rosso vivo, disposte a rotazione attorno al centro della pianta, da cui si irradiano inclinate per conferire una sorta di forma bulbosa a fungo. La sala circolare centrale misura un diametro di 50 piedi ed è stata così concepita lavorando sulla teoria che il cerchio è "una forma informale, raccolta ed amichevole”. Pensata come un'area per il tempo libero della famiglia o da utilizzare in compagnia di ospiti, manca di pareti divisorie o gerarchia di elementi, inondata dalla luce naturale che si diffonde dalla facciata in vetro a tutta altezza e dallo skylight sulla sommità, che aprono al paesaggio circostante senza interruzioni di continuità, abbattendo le definizioni di interno ed esterno. Il perimetro di questa unica stanza è delineato da una parete curva in carbone antracite, tempestata da un raffinato patchwork di biglie e frammenti di vetri dai riflessi acquamarina, scarti di una fornace di vetro, utilizzati come vere e proprie gemme per conferire ai semplici mattoni, neri come la pece, un senso di preziosità e ricchezza. Una spessa trama di corde di canapa intrecciate riveste il soffitto dell’ingresso e fa da contrappunto al motivo a 'spina di pesce’, creato dalla disposizione diagonale delle doghe di legno di cipresso, fissate lungo l'interno della cupola centrale di 166 piedi. Ogni mobile personalizzato o abbellimento decorativo ha la peculiarità di conferire comfort fisico non rinunciando a provocare vere emozioni visive. L'abitazione è composta da dodici diversi assortimenti di materiali, applicati ed utilizzati in modo eccentrico e giocoso, tale da produrre sequenze spettacolari della più sfrenata ed imprevedibile estetica. Ad abbracciare l'audace presenza, due cupole più piccole su entrambe le ali adiacenti, riservate alle zone più private, alle camere da letto e ai bagni, ne adornano i lati. I clienti di Bruce restano quasi ammutoliti per quanto l’architetto e amico ha saputo riservare, orgogliosi di avere una residenza non solo adeguata al loro stile di vita, ma che sembra pulsare e trasmettere carismatiche vibrazioni in ogni minimo particolare, rompendo l’impersonale ripetitività delle villette suburbane limitrofe. La forma inconsueta rappresenterà una provocazione per molti, che la descriveranno nei modi più curiosi, paragonandola ad una gabbia per uccelli, una mela, un disco volante, un fungo gigantesco e così via, causando come reazione da parte dei Ford l’affissione di un cartello su cui esprimeranno la loro stessa disapprovazione nei confronti delle proprietà di questi denigratori.
Interno, Bavinger House, 1950. Norman, Oklahoma. Eugene e Nancy Bavinger. Progetto di Bruce Goff. Foto cortesia di Anthony V. Thompson.
Il progetto, già dai primi momenti della sua fase iniziale, aveva coinvolto tutto il quartiere, catalizzando l'attenzione come un vero e proprio spettacolo. I passanti si fermavano ed affollavano il sito per assistere a processi che arrivavano ad eccezionali e assolutamente imprevedibili realizzazioni, spesso ricche di estrose personalizzazioni. L’apparenza strana ed inedita stuzzicava il vivo interesse di alcuni, costernando altri. Goff ha sempre avuto clienti molto sicuri delle loro preferenze e delle loro scelte, che, incuranti del giudizio del pubblico, hanno apprezzato la sua vivida immaginazione, l'alta qualità artigianale e la calda intimità delle loro dimore. Nel 1950, Goff progettò la sua iconica, splendida Bavinger House, a Norman, Oklahoma per due artisti, Eugene e Nancy Bavinger, una casa fatta di terra, monumentale e fiabesca che spunta dalla fitta vegetazione della foresta circostante. Evita qualsiasi stereotipo architettonico o layout utilizzati in precedenza, concettualizzando una spirale logaritmica simile ad un grosso Nautilus, lunga 96 piedi, che si avvita attorno ad un’alta asta d’acciaio che si eleva verso il cielo. La spirale si espande verso l’esterno con l’ampia voluta di un muro di arenaria e pietrisco raccolti localmente, in cui sono stati incastonati grappoli di grossi blocchi irregolari di vetro solido in una tonalità blu-verde. Lo spazio interno è completamente aperto e sorte di note galleggianti, a diversi livelli, ne scandiscono ritmicamente la dinamicità. Si alternano come grandi, avviluppanti nidi sospesi, attorno l’albero centrale, appropriandosi dei tre piani di vuoto, e, accessibili da scale che crescono lungo la parete perimetrale, accolgono nelle loro ampie superfici concave circolari. Offrono rispettivamente, in posizione ascendente, cinque aree di soggiorno: una zona conversazione, l’ambito notte e quello studio. Morbida moquette, nella calda tonalità del giallo, riveste le piattaforme, così come le imbottiture in gommapiuma, sporgenze e rientranze, che sostituiscono più organicamente i mobili assenti.

Interno, Bavinger House.1950. Norman, Oklahoma. Eugene e Nancy Bavinger. Progetto di Bruce Goff. Foto cortesia di Anthony V. Thompson.
Virginia Cucchi
Crediti:
Foto: Cover, 3, 5-8 Bavinger House e 10, modello della Ford House, 16- 17 Ford House : Foto cortesia di Anthony V. Thompson, per vedere altre fotografie dei progetti di Bruce Goff: https://flic.kr/s/aHsiS2Yxmn
Foto: 1 : Bruce Goff nel suo studio, nel Università di Oklahoma, 1954, Fotografia di Philip B. Welch. Cortesia di Goff Archive, Ryerson & Burnham Archives, The Art Institute of Chicago; digital file @ The Art Institute of Chicago,
Foto 2 : Bruce Goff e Frank Lloyd Wright, Cortesia di Goff Archive, Ryerson & Burnham Archives, The Art Institute of Chicago; digital file @ The Art Institute of Chicago
Foto: 4, 9 Bavinger House : Foto cortesia di Michael Stano.
Foto: 11-15 Ford House: Foto cortesia di Rachel Cole, per vedere altre fotografie della Ford House: https://flic.kr/s/aHsjGRikMJ